Roma — Il dibattito sì, invece. Restare lì, quando le luci in sala si riaccendono. Ritrovarsi a parlare tra timidezze e piccole domande di cose grandi, tra estranei. In mezzo a battute e chiacchiere, come antidoto alle futili tossiche guerre social. Come fuga dai conflitti veri e devastanti. Dopo un buon film, cessato il buio. Anche se è quasi mezzanotte, e magari aspetti pure il selfie finale.
Magari con Favino che, alla fine, sbotta e si apre sulla navigazione, in mare aperto, del “suo” Comandante. Alla platea romana, ancora sveglia e dritta sulle poltrone dopo un’ora e mezza di chiacchiere, citazioni o sfottò, l’attore consegna il suo cruccio, calmo, seduto, senza fretta: «Non è che mi abbia infastidito la strumentalizzazione del film, da parte di certi presunti progressisti. Mi infastidisce che non si possa più discutere, ragionare. Io, il regista De Angelis, lo scrittore Veronesi saremmo dei fascisti perché abbiamo raccontato un soldato come Todaro? Uno che riconosce il valore della vita anche nel nemico di guerra e tira via quegli uomini dall’annegamento? L’Italia è da sempre quel miscuglio putrido e vitale di lingue e culture, come dice Todaro al suo secondo. Noi siamo insieme meticcio. E vorremmo lasciare ancora morire gente in mare? Di cosa parliamo?». Edoardo, il cineasta outsider, denso e affilato come solo chi è passato dalla cruna dell’ago di Castel Volturno, commenterà sottovoce: «Altro che destri, qui sembriamo una vecchia assemblea post-proiezione del Pci. Io starei un’altra ora. Questa è militanza». E li guarda in faccia, se li gode, i suoi spettatori.

Magari fosse il nostro cinema più audace, lontano dal rischio di conformismo, a dettare linea. In quest’autunno segnato da un tris di opere che ispira e accende: l’exploit che sfonda i 10 milioni di incassi di Cortellesi con C’è ancora domani; il coraggio (declinato in tutti i sensi) di Comandante scritto da De Angelis e Veronesi (va verso i 3 milioni in 9 giorni, produzione Indigo con Rai e O ‘Groove); la forza poetica e universale di Io Capitano di Garrone (a 4 milioni nonostante sia tutto in senegalese, con sottotitoli, senza nomi di grido). Racconti che non ammiccano, non cercano complicità, sollevano lo sguardo da storie minimali, da stretti interni di famiglia.
Ora che i conflitti coprono le parole, le bombe cadono, e fuori piove. Sì, il dibattito li tiene incollati. Roma, l’altro ieri, cinema Moderno, la proiezione del film sul comandante del sommergibile “Cappellini”, Salvatore Todaro: che nell’ottobre del 1940, piena guerra, affondò il piroscafo Kabalo, ma contravvenendo alle regole decise di salvare tutti gli uomini dell’equipaggio nemico. Favino, per gli amici Picchio, sguardo languido di stanchezza, viene direttamente da Budapest (dal set con Angelina Jolie, per il film su Callas, Maria, diretto da Pablo Larraín). Sala piena, quasi standard pre-Covid, le luci si riaccendono alle 22.40 sotto la volta affrescata col Trionfo della Luce (che poi è il più antico di Roma, 1904, anche se il cityplex ora si chiama The Space) e si finisce a notte. Chi chiede ma è tutto vero?, chi domanda al regista se Stumpo il corallaro che si immola per salvare i compagni era veramente di Torre del Greco, chi è colpito da quel miscuglio di dialetti, incomprensibili e ostili l’uno per l’altro, però in solido, insieme. Chi chiede se l’acqua era almeno tiepida, se il sommergibile è stato ricostruito in toto, se le patatine fritte veramente le ha inventate il Belgio. Ma il punto che brucia: essere da alcuni bollati come quelli che hanno fatto un film che onora il fascista, vi ha colpiti?

Favino scuote la testa, spiega: «Ti appiccicano un’etichetta addosso, e questo è violento, orrendo, oltre che assurdo. Chi dice questo non ha visto il film. Bastava semplicemente ascoltare le ultime tre battute del film». Cioè salvarli, quelli che annaspano là sotto: «Perché così si è sempre fatto in mare, così sempre si farà, e coloro che non lo faranno saranno maledetti», dice Todaro. De Angelis aggiunge, da napoletano ironico: «Io ho fatto un film, mica un sussidiario. La storia si apre sul suo vigore militare, si chiude sul senso della sua scelta». E comunque. Il sommergibile è stato costruito 1 a 1,73 metri, 70 tonnellate di acciaio. E dietro ogni scena, ogni interno: uno studio maniacale. Così come dietro la storia delle patatine. Ah, e l’acqua era molto fredda, ride Favino, «ma è giusto, la prendono in faccia anche macchinisti e fonici». E poi c’è il selfie collettivo. E poi basta. Il dibattito sì, ma si è fatta una certa.