Carlito’s Way compie trent’anni. E noi speriamo ancora che il suo protagonista prenda quel treno

Usciva nelle sale nel novembre del 1993 uno dei più grandi film di quel magnifico regista che è Brian De Palma, che si ricongiungeva dopo dieci anni con l’Al Pacino di Scarface. Tra i due film, senza dubbio, questo è il migliore.

Carlito’s Way è uscito al cinema per la prima volta trent’anni fa, e io sono trent’anni che lo vedo e lo rivedo, e non smetto di sperare.
Non smetto di agitarmi sulla poltrona del cinema, o sul divano, non smetto di sentirmi il cuore in gola, di trepidare, di gridare “Attento! NO!”.
Perché Carlito’s Way è un po’ il mio personale Dottor Zivago, il film che su qualunque schermo passi tu, qualsiasi cosa tu stia facendo, ti devi fermare a rivederlo, per poi iniziare a essere irrequieto, e preoccupato, e a fare versi e rumori, borbottare e poi gridare il tuo “Attento! NO!” al posto di “Voltati! Voltati!”.
E così, ogni volta, finisci per rimanerci di sasso, impietrito, e per maledire Benny Blanco (from the Bronx), e di sentire le lacrime che scendono lungo le guance mentre Carlito chiude gli occhi mormorando: “Tired, baby, tired”.

Eppure – e il miracolo, il miracolo del cinema, è proprio questo – tu lo sai, che Carlito Brigante su quel treno per Miami, assieme a Gail, non ci salirà mai.
Lo sai anche se stai vedendo questo capolavoro per la prima volta.
Lo sai, magari, perché conosci le regole del gioco, del gangster movie, di questo genere di noir e di questi personaggi qui, per i quali non è possibile mai davvero la redenzione, figuriamoci un po’ la salvezza.
Soprattutto, lo sai perché Brian De Palma te l’ha detto fin dal principio, come sarebbe andata a finire. Perché la prima scena di Carlito’s Way è la sua finale, e tutto quello che c’è in mezzo è un lungo flashback, il ricordo narrato in prima persona da qualcuno che ce l’ha messa tutta (“Sorry babe, I tried the best I could. Honest”) ma che non è riuscito a acchiappare il sogno di una nuova vita, di qualcuno che della vecchia, e del mondo nuovo in cui si era ritrovato uscito di prigione dopo cinque anni, un mondo che non capiva né riconosceva più, era stanco.

Carlito Brigante è stanco, stanchissimo.
Carlito si sente vecchio, ha voglia e bisogno di tirare i remi in barca (“Charlie, you run out of steam. You can’t sprint all the way. You gotta stop sometime. You can’t buck it forever. It catches up to you. “It gets you. You don’t get reformed, you just run out of wind”).
Eppure non è mai rassegnato, nemmeno per un istante.
Nonostante la sua vecchia vita continui a arrivargli addosso (“I don’t invite this shit. It just comes to me”), nonostante la strada, con i suoi mille occhi malevoli, lo stia a guardare, stia a guardare la leggenda, dapprima con ammirazione e timore, poi nella consapevolezza che la leggenda non è più tale, che Carlito non è più quello di una volta, perché è lui a non volerlo essere (“That ain’t me now”).

Carlito è stanco, insegue un sogno, il sogno del Paradiso di Paradise Island e di un autonoleggio da gestire con un grande sorriso stampato sulla faccia, ma l’unico paradiso cui Carlito può ambire è un night club da gestire che si chiama, non a caso, El Paraiso, ma che in fin dei conti, se non un inferno, è comunque per lui uno scomodo purgatorio.
Carlito non sogna la redenzione, semmai una pensione (“I’m retired”), ma sulla sua strada gli ostacoli non sono gli anni di contributi che mancano, ma i tradimenti di coloro i quali riteneva degli amici (anzi, dei fratelli) e la sua incapacità di tradire un codice di comportamento talmente interiorizzato da essere diventato parte integrante della sua identità (“I owe him. That’s who I am. That’s what I am, right or wrong. I can’t change it”).

Carlito lo sa, come andrà a finire, l’ha sempre saputo, come l’abbiamo sempre saputo noi.
Anche Gail, saperlo, lo sapeva praticamente alla lettera: “I know how this dream ends. It isn’t in paradise. It ends with me carrying you into Sutton emergency room at 3 o’clock in the morning, and standing there, crying like an idiot, while your shoes fill with blood and you die”.
Lo sapeva, ma ci ha provato lo stesso, in tutti i modi. Senza fermarsi un momento, senza indugiare un momento, affrontato prove, sacrifici, tradimenti. Vedendo morire un giovane cugino che voleva imitarlo, l’amico e avvocato Davey Kleinfeld trasformarsi in un cocainomane e un gangster e un nemico, incontrando sulla sua strada un certo Benny Blanco from the Bronx che pensa di essere il Carlito di vent’anni prima, e che a ben vedere lo è, il Carlito di vent’anni prima. A sparare a Carlito, sul binario della Gran Central Station, a fermare la sua corsa e infrangere il suo sogno non è Benny, il personaggio che più ho odiato su uno schermo da quando guardo film, ma è il suo passato.

Lo sapevamo tutti, dall’inizio, come sarebbe andata a finire. Lo sapevamo noi, lo sapeva Gail, lo sapevamo noi.
Lui ci ha provato lo stesso, con spietata e disperata determinazione, e noi lo stesso lo siamo stati a guardare, abbiamo fatto il tifo, trepidato, sperato.
Abbiamo seguito con passione, ammirazione e affetto crescenti questo straordinario personaggio, interpretato dal Pacino più straordinario di sempre, perfetto controcampo del suo Scarface, che uno come Tony Montana non degno nemmeno di allacciagli le scarpe, a Carlito Brigante.

Siamo stati con gli occhi incollati allo schermo a vederlo agire, pensare, amare.
Siamo stati quasi incapaci di rimanere seduti nel corso di quell’ultima, strepitosa mezz’ora finale in cui Carlito cerca di risolvere tutto quel che deve risolvere in una manciata di ore (“Five hours left. Can I think of everything? Cover everybody. Tie all the shoelaces”).
Una mezz’ora di cinema sublime, in cui Brian De Palma, un De Palma reduce dai giocosi barocchismi postmoderni di Doppia personalità, si cita e si supera, regalando sequenze e geometrie e sentimenti potentissimi, incasellando il suo genio visivo dentro un classicismo hitchcockiano che è sempre stato lì, fin dal primo minuto.

E noi stiamo lì, a guardare Carlito che chiude i conti con Kleinfeld, che torna al club per recuperare i suoi soldi, che s’imbatte negli italiani che lo vogliono far fuori, che fugge in metropolitana e arriva alla stazione, che si nasconde dietro a colonne o sdraiandosi lungo le scale mobili, riuscendo miracolosamente a farcela, a salvarsi, a correre lungo il binario 19 della Grand Central con un sorriso enorme e innamorato stampato sul volto, verso la sua Gail, che lo aspetta, e sorride anche lei mentre Carlito le corre incontro, e le dice: “It’s gonna be ok”.

Però c’era qualcun’altro, che correva lungo quel binario.
E noi facciamo appena a tempo a dirlo: “Attento! NO!”.
POP! POP! POP!
Tre colpi, all’addome. Un quarto per Pachanga.

C’è tempo giusto per un ultimo, incredibile movimento di macchina, e poi… sorry boys.
“Last call for drinks. Bar’s closin’ down. Sun’s out. Where we goin’ for breakfast? Don’t wanna go far. Rough night. Tired baby… tired”.

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